Omelia XXIII Domenica T.O.-A
(Matteo, 18,15-20)
Ave Maria!
Non si potrebbe capire in profondità questo brano evangelico, se sullo sfondo, per così dire, non vi leggessimo anche l’eco di eventi drammatici, quali la distruzione del tempio di Gerusalemme nell’anno 70 da parte dei romani e che lo storico ebreo Flavio Giuseppe descrive, a tinte fosche, nella sua celebre opera Sulla guerra giudaica. Infatti, quella distruzione, avvertita ancora oggi dagli ebrei osservanti che affollano il famoso “muro del pianto” a Gerusalemme, provocò una profonda crisi nel popolo ebraico. Il tempio era la “casa di Dio” e da lì regnava imponendo la sua legge. Una volta distrutto il tempio, dove avrebbero potuto incontrare la sua salvezza salvifica? Così i rabbini, maestri della Legge, in quella che rappresenterà la “diaspora” del popolo ebraico, reagiranno cercando Dio nelle riunioni delle sinagoghe dove si trovavano per studiare la Legge.
Le comunità cristiane, provenienti dal giudaismo, invece, reagiranno a quella catastrofe in modo molto diverso: l’Evangelista Matteo ricorda a quelle comunità alcune espressioni di Gesù e che saranno di grande importanza per mantenere viva la sua presenza tra i suoi discepoli e specialmente in momenti di crisi o di eventi altrettanto drammatici: “Dove due o tre sono riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro”. Non si poteva dire, in maniera migliore, la differenza che caratterizza una riunione, fatta per tradizione o disciplina nei confronti di un “precetto”, da quella cristiana dove l’atmosfera spirituale è di altro tipo: sono discepoli e discepole di Gesù che “si riuniscono nel suo nome”, attratti da Lui e animati dal suo spirito, per cui solo Gesù è la ragione, la fonte, lo stimolo profondo di questo incontro! Non un tempio di pietra, per quanto bello e solenne a lode di Dio, non l’asservimento abitudinario o la passiva accettazione di norme e precetti, per quanto utili e necessari a mantenere uno spirito religioso, ma la presenza di Gesù, il Risorto, assicurerà la vita spirituale dei suoi discepoli e discepole. Le conseguenze di questo spostamento di prospettiva saranno incalcolabili.
Così, come ci assicurano gli storici del cristianesimo primitivo, sembra che le prime generazioni cristiane non si preoccupassero molto del loro numero e tanto meno se avessero più o meno visibilità e importanza nel mondo sociale e culturale che le circondava ( a differenza di oggi dove l’ossessione del “numero” mette in secondo piano o ai margini la presenza di Dio, di Gesù, del suo Spirito, ahimé!). Di fatto, alla fine del primo secolo i cristiani erano solo circa ventimila, dispersi in tutto l’Impero romano: erano pochi o erano molti? Eppure erano la Chiesa, la comunità di Gesù, per la quale la cosa importante e fondamentale era vivere del suo Spirito. Il resto non importava. Non a caso, san Paolo invitava costantemente i membri delle sue piccole comunità a “vivere in Cristo”, con una insistenza che ancora oggi ci sorprende e ci inquieta, mentre il Vangelo di Giovanni rincara altrettanto l’invito a “rimanere in Lui”, stabili e fedeli. Matteo, da parte sua, riporta, a questo proposito, la parola di Gesù: “Dove due o tre sono riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro”. Nella sua Chiesa, in effetti, non si può stare per abitudine, per inerzia o per paura, quasi fosse soltanto una “riunione” umana o sociale o di altro tipo: i suoi discepoli e discepole devono stare insieme perché, in primo luogo, sono stati chiamati da Lui a vivere “riuniti nel suo nome”.
La conseguenza di tutto questo, ripetiamolo a noi stessi, è cruciale e incalcolabile: intanto, nessun discepolo o discepola di Gesù è realmente tale se prima non è stato “chiamato” da Gesù o se, chiamato da Lui, ha ricevuto dal Signore una vocazione e una missione (allo stesso tempo), allo stato del matrimonio, della vita religiosa, sacerdotale, papale, episcopale e così via. Cioè l’intero corpo di Cristo, nel linguaggio paolino, che è corpo perché ha un capo che pensa ed agisce, Gesù stesso. Nessuno decide della sua vita o della sua vocazione per i fatti suoi, quasi fosse una decisione privata o personale, anche se – occorre aggiungere – il Signore Gesù si serve anche di tante “mediazioni” umane (sensibilità, intelligenza, contesti sociali, familiari, di amicizia, oppure, meglio, persone precise e carismatiche) sulle quali – ed è qui il punto decisivo – Gesù esercita il suo influsso, profondo e misterioso, pur non toccando mai la libertà della persona e le sue possibili scelte, come farebbe un qualsiasi manipolatore di coscienze ( manipolatori che oggi sono legioni e tutte indaffarate a convincere per una cosa o per l’altra: opinionisti di grido, spesso intellettuali, perfino ecclesiastici, giornali o social media, e chi ne ha più ne metta). In realtà, Gesù esercita questo influsso con la delicatezza, la pazienza e soprattutto la verità dell’amore e della speranza, in una parola con la fede che può essere matura o solo all’acqua di rose, dal che dipendono molto le nostre decisioni in fatto di vita cristiana. Qui si tratta, dopo tutto, di convertirci a Lui, amare e sperare in Lui, nutrirsi del suo Vangelo, vivere l’intera esistenza intorno a Lui e nel suo orizzonte. In una spazio interiore, per così dire, ben definito dal centro che è lo “spazio Gesù” al cuore di ogni comunità cristiana. Anche oggi, dunque, checché ne pensano gli opinionisti dentro e fuori la Chiesa, è questo il nostro primo compito, la nostra “missione” che abbiamo ricevuto da Gesù, anche se siamo pochi o resteremo pochi, anche se siamo in due o tre, in una famiglia cristiana, in una comunità religiosa, o in qualsiasi altra comunità.
Certo, tutto questo è scandaloso per i nostri criteri umani che amano il successo o l’importanza sociale e culturale. Ma il fattore “scandalo” non può essere eliminato dalla causa di Gesù e del suo Vangelo, nonostante tutti i nostri sforzi per adattarlo, addomesticarlo su valori soltanto morali, ed eliminando lo scandalo che è Gesù stesso e la sua Parola, nella sua morte e risurrezione. Così Gesù è il rischio che dobbiamo correre nella nostra vita di fede. Prendere o lasciare. In verità, questo spazio interiore dominato da Gesù è la cosa più essenziale, la prima in assoluto, che dobbiamo curare, consolidare e approfondire nelle nostre comunità, parrocchie o istituzioni cristiane. Non ci inganniamo. Il vero rinnovamento della Chiesa comincia sempre nel cuore di due o tre persone credenti che si riuniscono “nel nome di Gesù”.
Il brano di Matteo 18, peraltro, è servito molto, nelle comunità religiose, e talvolta anche in famiglie molto cristiane, come base di discernimento dello spirito di fraternità, di revisione di vita, di correzione fraterna, e così via. Questa è una cosa buona, bisogna discernere bene, però, ciò che Gesù vuole dirci. Perché, quando due o tre discepoli si incontrano nulla può rimanere come prima, ma sempre a condizione che si incontrano nel suo nome e non già, come spesso accade, in una qualsiasi relazione umana che sia avvenuta per caso o per nostra scelta del momento. Il nostro egoismo, infatti, scambia spesso la fraternità, nata dalla fiducia accordata a Gesù, con la familiarità delle relazioni umane che è tutt’altra cosa: un prolungamento, una proiezione del nostro io infantile che vuole trovare nella comunità cristiana quelle sicurezze sperimentate in famiglia o desiderate dal narcisismo di ognuno. La comunità deve erogarci determinati “servizi”, sia di benessere psicologico sia anche pratici, e se non riesce in questo intento, noi la mettiamo in discussione con recriminazioni, risentimenti, più o meno esplicite o larvate accuse. Accade anche quando la Chiesa, per molti così detti cristiani della domenica, si dimostra fragile con le sue debolezze e perfino con i suoi peccati. La Chiesa deve essere perfetta perché io, il mio piccolo io, ha bisogno di sicurezze, ma se ho bisogno di sicurezze terra terra non ho bisogno di Dio, di Gesù, e faccio presto ad abbandonare ogni cosa. La fede, in questo caso, senza la centralità di Gesù, è una canna che si piega al minimo rumore di vento e si dissolve passato il suo rumore. In altre parole, i discepoli e le discepole di Gesù potrebbero anche non incontrarsi nel nome di Gesù e cioè non fare riferimento esclusivamente a Lui. Potrebbero trovarsi gli uni accanto agli altri, come in un club, per la strada, sul posto di lavoro, nello svolgimento di affari o di interessi sociali e culturali. Questo tipo di cristiani (più numerosi di quanto si pensi) potrebbero trovarsi insieme, organizzare qualcosa di importante, ma senza neppure ricordarsi che, ovunque siano e con chiunque siano, è nel nome di Gesù che si sono incontrati.
Al contrario, quando i cristiani (in una comunità, in una parrocchia, in una Chiesa locale) sono veramente uniti nel nome di Gesù, allora tutto cambia, perché dove c’è Gesù c’è l’intero suo corpo, la Chiesa. La comunità può essere, anche in questo caso, una vera croce, ma, come dice san Paolo: “tutto posso in colui che mi dà forza”. Ed è così che i rapporti tra i discepoli vengono modificati, come anche i rapporti tra i discepoli e il Padre: ho fiducia in colui “che mi ha amato e ha dato sé stesso per me”! (Gal 2). La preghiera di queste comunità diventa irresistibile agli occhi di Dio, ci assicura Gesù, e anche quando non pensiamo di essere stati esauditi secondo le nostre vedute: “Se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà”. E tutto questo avviene perché Gesù è realmente presente nella nostra vita e nella nostra preghiera per il mondo, la Chiesa, i nostri fratelli e sorelle più bisognosi e sofferenti anche per le loro mancanze e fragilità.
Da qui nasce una grande e inaudita responsabilità, anche per ciascuno dei credenti, nei confronti di ognuno dei fratelli incontrati nel nome di Gesù. Certo, una responsabilità particolare è affidata ai capi e alle guide della comunità cristiana, per tutta la Chiesa nel suo insieme. L’apostolo Pietro, ad esempio, ha ricevuto le “chiavi” che gli conferiscono un potere personale, destinato a lui e ai suoi successori. E la nostra fede viene seriamente impegnata a vedere, in questi capi o guide, la persona del Maestro, di Gesù, per cui non ci è consentito, da parte di Dio, di mettere in discussione il disegno di Dio per la sua Chiesa che va ben oltre i nostri criteri di sensibilità o di presunta intelligenza. E tuttavia, secondo il Vangelo, viene accordato da Gesù un potere inaudito ed efficace a tutti i cristiani quando si incontrano nel suo nome, anche solo a due a due, purché, beninteso, questo non avvenga per criticare, distruggere, disprezzare gli altri esseri umani. Di fatto, anche i pieni poteri della Chiesa o, per meglio dire, l’unico potere è quello dell’amore. Di per sé, in effetti, non sarebbe necessario esseri cristiani per rimproverare i fratelli, criticare o giudicare la loro condotta, richiamarli all’ordine e ai loro doveri, nonché ai loro difetti e mancanze. Questo lo fanno tutti gli uomini e le donne, soprattutto oggi, quando non si è capaci di autentiche relazioni umane e si ha bisogno del “capro espiatorio” che l’antipatia, la competitività, il narcisismo, purtroppo, ci mette sempre davanti. Ma al cristiano è richiesto da Gesù di avvicinare anche il peccatore per accoglierlo nel più profondo del cuore, circondandolo di amore in modo che il suo “peccato” gli si imponga come realtà dall’interno, e non già perché sorpreso in flagrante, ma svelato dolcemente e già avvolto in anticipo dall’amore.
Tutto questo lo può fare solo il “miracolo” dell’amore cristiano, vale a dire dell’amore salvifico di Gesù, che è presente ogni volta che due o tre dei suoi discepoli e discepole sono riuniti nel suo nome, per confortarsi a vicenda, per rendere grazie e per camminare insieme verso il Regno di Dio che viene. Amen.
don Carmelo Mezzasalma
San Leolino, 5 settembre 2020
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